Marco Ferri con Francesco Colonnelli
Da nostro lunedì num. 1 nuova serie
Leopardi. Il pensatore pericoloso
“Il dato principale – diceva Brodskij in un suo discorso alla Library of Congress di Washington nell’ottobre del 1991 – è che la proporzione tra il pubblico che si rivolge alla poesia e il resto della società non è certo entusiasmante. In ogni fase di quella che chiamiamo storia documentata la poesia ha avuto un pubblico che sembra non aver mai superato l’uno per cento dell’intera popolazione. La base per questa stima non è una qualche indagine specifica, bensì il clima mentale del mondo in cui viviamo. Anzi hanno prevalso sempre condizioni meteorologiche tali che la cifra suddetta sembra un tantino generosa”. La preoccupazione di Brodskij non era per i poeti, che in genere hanno maturato una loro arte della sopravvivenza, quanto per il pubblico.
Se una casa editrice che stampa un libro di poesie sa che può rivolgersi solo allo 0,001 per cento della popolazione, la sua sfida, perché è una vera sfida, avviene fuori dal mercato, e può raggiungere un suo pubblico attraverso vie trasversali.
Apparizioni mistiche, rastrellamenti di intere classi scolastiche, incontri notturni fra alieni. Ma ormai la peste dilaga. Non riguarda soltanto la poesia, ma ogni scrittura, anche narrativa, che crede di poter eludere il gusto del mercato. Per queste scritture resta ancora un labile, quasi diafano, omaggio o rispetto, che come tutte le istituzioni intaccate dalla beceraggine dei tempi durerà per poco. Se un tale parlamentare (i nomi sono già folla e follia) è amaramente noto perché invece di prendersela con il suo barista se la prende con il presidente della Repubblica, questo non è un segno dei tempi? Ma qui siamo nel facile. Ci sono invece situazioni più complesse, e più disastrose e più incivili.
Già Leopardi, all’alba della moderna editoria, scriveva nello Zibaldone del 21-22 agosto 1828: “Noi diciamo aver pubblicato un componimento quando ne abbiam fatto tirare qualche centinaio di copie, che andranno al più in qualche centinaio di mani; come se quelle centinaia di lettori fossero la nazione: e la nazione veramente, il vero pubblico, il popolo, non ne sa assolutamente nulla”. L’anno prima aveva scritto: “La sorte dei libri oggi è come quella degli insetti chiamati effimeri (éphémères): alcune specie vivono poche ore, alcune una notte, altre tre o quattro giorni; ma sempre si tratta di giorni” (2 aprile 1827). Si lamentava anche del fatto che il numero degli scrittori superasse quello dei lettori ma soprattutto, di fronte a una produzione editoriale di semplice consumo, che poi influiva in modo pernicioso sul lavoro letterario (oggi in più c’è l’influenza di una industria ricca e celebre come quella cinematografica), Leopardi suggeriva di cominciare a distinguere. La qualità del moderno mercato editoriale, votato all’effimero, può testimoniarla chiunque lavori o abbia lavorato in una biblioteca pubblica: montagne di carta di ogni tipo viene quotidianamente donata, più per liberarsi dalle conseguenze di un proprio bisogno compulsivo che per autentico servizio pubblico, a queste istituzioni, che dovrebbero chiedersi ormai che senso abbia conservare il nulla, considerato tale dagli stessi lettori, una volta svaporati i fumi della retorica editoriale. Leopardi consigliava di distinguere, dicevo. In una pagina dello Zibaldone del 21 settembre 1828 egli proponeva infatti l’istituzione di due letterature, una per gli “intendenti” e l’altra per il “popolo”. Una soluzione elitaria, ma del resto l’immondo mescolarsi di letteratura commerciale e letteratura vera negli stessi autori è uno degli spettacoli più meschini del nostro tempo. Diceva Leopardi.
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