Di Filippo Davoli
Se nostro lunedì chiede al sottoscritto di scrivere una (bella?) pagina su Macerata, sa che rischia di trovarsi sotto gli occhi magari solo un lembo di questa città; un angolo, un nido, un punto marginale o indifferente ai più. Sa – e forse è quello che vuole – che la pagina non conterrà informazioni ma lampi; che chi non le è proprio potrà (spero) visitarla da dentro, da dietro, ed anche più in là (non importa dove ma quanto, più in là) di ciò che comunemente la città significa.
Non è un caso, non lo è mai per qualunque città, che Macerata sorga sulle colline (così come altre città sono porti o castelli montani). È la collina dolce del Piceno, che ha reso il maceratese smussato come i suoi colli; mite quanto inafferrabile; solido quanto mutevole; preda del suo mare d’erba, del moto ondoso delle sue campagne. E, come quando l’architettura era ancora il passaggio del testimone dalla natura all’uomo, anche lo sviluppo urbanistico di Macerata risponde fa presente la cautela nella navigazione, unitamente all’estro geniale ma introflesso, come è proprio di un mare di terra, di barche arroccate sui cucuzzoli.
In quelle rare e ottime occasioni in cui un black out mescola provvidenzialmente tutte le carte, aprendo i palazzi del centro storico a uno scuro formidabile, il buio è appena scalfito dalle stelle (per le vie non passa più nessuno e tutt’al più si alza una risata di studenti universitari di ritorno dalla discoteca o dal pub); solitari, ci si perde per i vicoli ormai disabitati del centro, fin dove gli spigoli coperti dalla parietaria si concedono al mare d’erba delle colline e in lontananza si può scorgere la sagoma del Conero a picco sul mare; e alle spalle i sobri palazzi rinascimentali, miniature di quelli fiorentini ma di fattura analogamente aggraziata, rigorosamente a faccia vista, alternati da case basse e fughe di sguardo a destra e sinistra, là dove si originano e confondono tra loro viuzze ed erte, sampietrini e scalette. Poco lontana, la Loggia dei Mercanti: nel cuore della notte, disabitata, sembra quasi rilasciare un po’ delle sue memorie; era lì che ci incontravamo con Remo Pagnanelli. All’epoca l’illuminazione notturna era terrea, non incoraggiava il passeggio. Con Remo e Guido Garufi – e tanti altri amici – si copriva quel vuoto con la forza della parola.
Chissà se qualcuno, insieme ai palazzi, un giorno ricorderà anche queste minime cose… I monumenti umani… Mentre cammino ci penso. Anzi, spesso lo faccio: tocco i muri per raggiungere oltre il tempo chi non c’è più: sia che il suo nome sia nella memoria di tutti, sia invece che la sua traccia si sia persa nel nulla. Nel silenzio irreale che c’è intorno, mi tornano anche le voci, le più difficili da ricordare, senza un documento sonoro: mi provo a rimodularle mentalmente, e in questo modo è come se la Piazza della Libertà fosse ancora popolata come allora. Il sostegno di luci più calde, più avvolgenti, è un conforto che sa calmare e colmare…
Con Pagnanelli, negli ultimi tempi, c’eravamo visti in periferia, dalle parti di casa sua: guardava l’ultimo polmone di verde nella via subito sotto, verso la strada di scorrimento sud
(che grande mistero, lo sviluppo viario di Macerata…). C’è anche un video, l’unico esistente di Remo, in cui parliamo insieme di poesia, a casa sua, e quindi sottobraccio ci avviamo a guardare quel famoso polmone verde che, in effetti, come aveva previsto lui, adesso è finito.
La notte facilita il passeggio: arrivo in Piazza Cesare Battisti, davanti alla casa natale di Padre Matteo Ricci. Ecco un’altra vistosa anomalia di Macerata, piccola come Nazareth e – come Nazareth – insospettabile generatrice di grandi personalità. Il gesuita che qui ebbe i natali è sepolto in Pechino: e nel suo nome (come peraltro in quello di Giuseppe Tucci, altro nostro concittadino) oggi la nostra città conosce una nuova feconda stagione di rapporti, sia istituzionali e commerciali che religiosi, con la Cina; le delegazioni le incrociamo spesso, tra il municipio e il palazzo della Provincia; così come giovani sacerdoti del seminario diocesano e missionario Redemptoris Mater (che qui è sorto pochi anni fa, con l’intenzione precipua della rievangelizzazione, in particolare della Cina) hanno già preso la via della missione verso l’estremo oriente. Chi l’avrebbe mai sospettato, solo dieci anni fa? Eppure Macerata ha da sola più vocazioni dell’intera regione Marche.
Di notte, comunque, è ancora e sempre l’isola con i dolci limiti che la fanno paese e mondo: e dai suoi silenzi riaffiorano altre sagome, altre voci, che l’hanno resa meno chiusa fuori dei suoi confini: su tutti, mi vedo davanti il sorriso illuminante di un amico indimenticabile, grande artista, come Wladimiro Tulli, che mi manca ogni giorno un pochino di più; ci sedevamo sotto le logge del Palazzo degli Studi, dopo aver passeggiato un po’. Io gli chiedevo: “Perché se mi vesto di viola e marrone come te, mi sta male, addosso?” e lui replicava di botto: “Perché io non ho paura dei colori!”. Aveva ragione: per questo continuo a camminare da solo nella notte, senza avere più paura del buio.
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