di Rita Reggiani
concorso letterario nazionale
Associazione, VocidiDonne
Ancona, un trafiletto di cronaca nera sulla stampa locale: nei bagni pubblici di Piazza Stamira è stato trovato il cadavere di A.P.; presunta causa del decesso: overdose di eroina. In una città di provincia, in genere, di queste vittime si sa, o meglio, si pensa di conoscere tutto: abitudini, vizi segreti, virtù; fa notizia per un paio di giorni e poi più nulla. Povere e grandi storie: quante le donne trovate morte ogni anno, di cui a volte si ignora anche il nome e delle quali, in maniera spicciativa, si individua un plausibile motivo di morte e finisce lì, perché ci sono altre notizie che ci incuriosiscono, perché vogliamo cose allegre, perchè la morte è un mistero impenetrabile al quale cerchiamo di non pensare. Capita a volte, però, che quello che cerchiamo di rimuovere rimane impigliato nella trama della nostra memoria; ed ecco che, senza un motivo apparente, riaffiora e diventa un’esigenza rimettere ordine nei propri ricordi e cercare di capire ed individuare il punto di svolta in cui un’esistenza come tante diventa un dirompente fatto di cronaca, specialmente quando, di questa vita, si è stati testimoni. Tutto inizia negli anni settanta: da poco mi ero trasferita ad Ancona e mi guardavo attorno con interesse e curiosità; per alcuni aspetti questa città mi ricordava Trieste e le parole di U. Saba: era un piccolo porto, era una porta aperta ai sogni..e di sogni ne avevo molti, come tutti i giovani. Il panorama dal mio appartamento era un incanto, lo sguardo spaziava dall’indefinito orizzonte fra cielo e mare sino ai monti azzurri, gli Appennini, passando sulla città; le cose, le persone mi apparivano lontane, come le loro vicende.
Un pomeriggio di primavera, un suono ritmato, proveniente dalla strada, interrompe il mio fantasticare; incuriosita, mi affaccio dal balcone e ne scopro l’origine: è una palla contro il muro della casa dall’altra parte della strada, una palla rossa, sempre lo stesso tiro.
Chi gioca è una ragazzina dai capelli castani, di circa dieci anni, sola, che continua in maniera quasi ossessiva a lanciare la palla, fino a quando una donna dalla finestra la chiama: Arianna !
Notai che la cosa si ripeteva tutti i giorni, nel pomeriggio quando tornava da scuola e le condizioni climatiche lo consentivano; sempre sola, tranne qualche rara occasione in cui giocava con un’altra ragazzina. Quella bambina cicciotella dagli occhi tristi e il suo modo di fare mi incuriosivano: seppi che viveva in un appartamento al primo piano della casa di fronte, con la madre e il fratello di poco più grande di lei, soli dopo la morte recente del capofamiglia. Una casa fatta di silenzio, mai gli schiamazzi tipici tra fratelli e la voce della madre che li richiama, né la musica che normalmente accompagna la crescita dei ragazzi; mai gruppetti vocianti di coetanei che vanno a trovarli.
La madre, sempre vestita di nero, esce tutte le mattine alla stessa ora, per andare a lavorare; fa ritorno nel primo pomeriggio, trascinando stancamente il suo corpo pesante e le borse della spesa. Sempre sola, senza un sorriso, solo un cenno di saluto col capo quando incontra una vicina o un conoscente.
Il fratello di Arianna, che ha precocemente dovuto assumere il ruolo di uomo di casa anche quando sarebbe stato più naturale il gioco spensierato con gli amici, è di corporatura massiccia, vestito di scuro, solitario e silenzioso, come la madre. Si muove da adulto e dimostra un’età indefinita, preciso nei gesti e nell’incedere, mai di corsa sudato o trafelato come i suoi coetanei; al massimo, quando è in ritardo, un passo più veloce.
Intanto Arianna cresce, è passato il tempo del gioco della palla e comincia un inquieto andirivieni fuori e dentro casa: è un’adolescente come tante, il corpo abbondante coperto da maglioni di taglia superiore, pantaloni jeans, capelli lunghi sulle spalle non sempre curati, scarpe da ginnastica, andatura goffa; impacciata nei rapporti con gli altri, vive la giovinezza come scoperta del corpo tra stupore e desiderio; non mostra particolare voglia di studiare, vorrebbe volare, fare cose diverse dalla madre.
Arrivano i ruggenti anni ottanta: un giorno un’auto di grossa cilindrata, grigia, si ferma sotto casa; ne scende una bella ragazza vestita all’ultima moda, truccata, tacchi alti, capelli biondi, che saluta affettuosamente il suo accompagnatore; stento a riconoscere Arianna: una bella e variopinta farfalla appena uscita dal bozzolo, che ha cominciato il suo volo. Diventa un’abitudine vedere quell’auto: il proprietario è un noto professionista, conosciuto in città più per la prestanza fisica e le avventure femminili che per i successi nel lavoro. Arianna sembra felice, ha cambiato il suo modo di essere: nel vestire, nel muoversi, nel modo di guardare gli altri appare sicura di sé, realizzata.
In estate è con lui, sul suo motoscafo: si fa notare davanti un esclusivo stabilimento balneare di Portonovo anche perché lui, non rispettoso delle leggi, arriva d’abitudine a motore acceso quasi a riva. Nel tempo che passa, l’unico cambiamento è la presenza di un cucciolo di pastore tedesco, che lei accudisce con tenerezza; gli parla, lo accarezza spessissimo quasi a rassicurarlo, lo porta fuori ed è facile incontrarla per strada sorridente, apparentemente serena. Si arriva all’ultimo decennio del secolo, l’avvio economico di Ancona subisce l’ennesimo arresto; dopo le vicissitudini del terremoto, della frana e a causa della crisi che investe tutta l’Italia, i posti di lavoro diminuiscono e per i giovani è difficile cominciare.
Arianna passa le sue giornate a casa; un giorno mi capita di vederla per strada mentre stancamente accompagna il cane, la testa china, l’aspetto trascurato; gli occhi appaiono spenti e ricambia a fatica il mio saluto; rimango colpita dal cambiamento avvenuto, sembra aver dimenticato i suoi sogni: mi riprometto di interessarmi a lei, ma vengo ripresa dalla mia vita vorticosa e mi dimentico di farlo. Sarà l’ultima volta che la vedo. A riportarmi a lei sono gli articoli dei giornali che parlano della sua morte; le chiacchiere e i commenti sono tanti, c’è anche chi dice che lei dalla droga stava uscendo: ma sapeva troppo circa le abitudini di certi personaggi in vista di Ancona e avrebbe potuto, magari involontariamente, danneggiarne la reputazione.
Morire è un rischio elevato per chi perpetua una digressione, un corpo a corpo con la verità oltre lo sguardo ottuso del luogo comune e, comunque sia andata, forse una dose di eroina tagliata male ha messo fine alla sua esistenza.
Ripensando a quando l’avevo conosciuta bambina e allo svolgersi della sua esistenza nel corso degli anni e quindi a tutta la dignità di una vita, mi venne spontaneo domandarmi: cosa hanno trovato in quel lurido bagno? Il corpo di Arianna oppure lei, Arianna?
Forse quello ritrovato è solo un corpo bugiardo, che nulla conserva delle emozioni, delle speranze e delle paure che un giorno l’animarono, perché il corpo e l’anima appartengono a due entità non commensurabili: ma, naturalmente, è solo una teoria.
Dopo la sua morte la madre, sempre più provata anche fisicamente, non trascura di portare fuori il cane, l’unica cosa che le è rimasto di Arianna; la si vede camminare lentamente, trascinandosi sulle gambe gonfie, chiusa nel dolore. Quante cose devono passarle per la testa, quanti sussulti deve reggere il suo cuore già duramente provato: ora quel corpo che lei aveva partorito, nutrito, pulito, vestito e baciato, si è distaccato da lei definitivamente.
Dopo qualche tempo, mentre passeggio nei giardini del Passetto, mi capita di incontrare quel professionista: è a bordo della sua auto, il finestrino abbassato gli consente di tenere il guinzaglio del cane che gli corre accanto, nei vialetti dove è vietato l’accesso alle auto. Superata la sorpresa, nel momento in cui mi passa accanto, vorrei manifestagli tutto il mio disprezzo per il suo comportamento e non solo per l’infrazione; ma mi trovo davanti una maschera di quello che era: il viso gonfio, pieno di rughe, gli occhi azzurri, come annacquati, lo sguardo perso, l’espressione assente. Si è trasformato; dopo poco compare, sui giornali locali, il suo necrologio.
Giugno 2012: sono affacciata al balcone da dove negli anni ho continuato ad ammirare i giochi delle nubi, le albe, i tramonti e lo svolgersi delle stagioni, immersa nell’azzurro del cielo e del mare. Mi sfiora il volo di una rondine, l’emozione per un attimo mi blocca il respiro: penso ad Arianna.
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