“Muse” piccolo viaggio di poche parole – parte 1 di 3
di Francesco Scarabicchi
tratto da nostro lunedì
n° 1 scene – prima serie
Compito precipuo del teatro è interpretare la vicenda e comunicarla al pubblico attraverso appropriati straniamenti. E non è l’attore che deve far tutto, anche se nulla deve esser fatto senza riferirsi a lui. La «vicenda» viene interpretata, prodotta ed esposta dal teatro nel suo insieme: dagli attori, dagli scenografi, dai truccatori, dai costumisti, musicisti e coreografi. Ciascuno associa la propria arte nell’impresa comune, senza rinunciare con ciò alla sua autonomia. Così chiamiamo a noi tutte le arti sorelle dell’arte drammatica, non per creare un‘«opera d’insieme» in cui tutte si annullino e si disperdano, ma perché ognuna di esse, insieme all’arte drammatica, dia a modo suo impulso e sviluppo all’opera comune; e il loro rapporto reciproco sarà proprio quello di straniarsi a vicenda.
Bertolt Brecht Breviario di estetica teatrale
Mentre salgo e scendo “almeno un milione di scale”, secondo l’adagio montaliano del quinto dei suoi Xenia, nel corpo delle Muse, insieme con la cortesia dignitosa dell’architetto Danilo Guerri che mi guida in un pomeriggio di settembre di quest’anno 2002, ho spesso l’impressione di sentire, nell’ansa di un’ombra, dentro al buio di un corridoio, dietro una parete, come la presenza ironica e furbetta di mia madre, nata nel 1906 in Piazzetta Sant’Anna, sotto il Duomo, e spentasi, nel sonno, in una notte d’agosto del 1986. Credo che non abbia mai saputo il nome delle nove muse né le storie ad esse collegate. Ne intuiva forse il senso, l’oblio delle sofferenze, la fine d’ogni preoccupazione, lo smemorarsi nelle parole della recita, nella musica, nel canto.
Aveva un’eccellente voce da soprano, grazia e passione. “Casta diva”, dalla Norma di Bellini, la cantò finché non sentì la Callas (forse in una incisione del ’53, con Franco Corelli
e Boris Christoff, o del ’55, con Ebe Stignani e Mario Del Monaco) e allora smise. Core ‘ngrato del 1912 – nei versi di Vincenzo Coldiferro su musica di Salvatore Cardillo (“Catarì, Catarì/pecché me dice sti parole amare? Pecché me parle, e’ o core me turmiente,/Catarì?”) era il ricorrente dono delle feste, quando si faceva tutto silenzio intorno, che lei offriva, con la voce e con il gesto della mano destra, al pubblico. Passavamo davanti al Teatro ogni giorno, salendo alla Cattedrale, sul finire degli anni Cinquanta, e non c’era volta che non le chiedessi di potermi fermare accanto alle vetrine dell’ingresso della Cartoleria Papini (a inizio secolo vi era il “Ristorante delle Muse” con caffè e birreria) a guardare quel sogno miracoloso di oggetti, colori, forme e scintillio di carte, soprattutto nei giorni del natale o in primavera, quando quel luogo protetto diventava fiaba e racconto e le commesse gentili uscivano a regalarmi un temperamatite, i pastelli a cera o le carte assorbenti rosse e blu. Mia madre raccontava di quando nel Teatro ci entrava, con la nonna Adele, le sorelle e i fratelli, in loggione, per l’opera.
Lo stesso faceva mio zio Guglielmo, detto Bruno, il baritono Casci, nato nel 1901, che su quel palcoscenico cantò nella “Corale Bellini” e con Gigli non so cosa e non so quando. La prima, vaga memoria del Teatro proviene da loro, dal ricordo addolorato delle porte chiuse, delle luci spente, del sonno terribile del dopoguerra.
Lo dico a Danilo Guerri mentre, dal foyer, alziamo lo sguardo al cassettone del soffitto, a quel contrasto d’epoche che sposta in avanti tutta l’arcaicità del cemento quando s’innesta in esso un’idea della forma che salva dall’uso comune e ne attesta il grado di classicità d’autore. L’impressione insiste, quello strano sentirmi osservato da altri occhi nascosti, in alto, sui ballatoi: sorridenti, appoggiate alla ringhiera, ragazze dai nomi strani, figlie di Zeus e di Memoria, Clio, colei che rende celebri (epica e storia), Euterpe, colei che rallegra (lirica monodica), Talia, la festiva (la commedia), Melpomene, la cantante (la tragedia), Tersicore, colei che si diletta nella danza, Erato, colei che suscita desideri (la poesia amorosa e la geometria), Polimnia, ricca di inni (il canto sacro), Urania, la celeste (la poesia didascalica e l’astronomia), Calliope, colei che ha una bella voce (l’elegia) e Apollo (il Musagete, appunto), la loro guida, magari seduto su qualche gradino ancora interdetto da una piccola barriera di legno, sulla scala antica che una ragazza seguita paziente a restaurare nelle sue crepe.
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