Ancona, ancora. (parte II)
Per Andrea Silicati Ancona, è come la Roma di Enzo Cucchi: un’altra città, non la propria, un’altra visione. Questo scarto evita proprio quel sottofondo di sentimentalismo
che tante volte incrina lo sguardo e lo confonde con il ricordo. Invece, in questo caso abbiamo una ricostruzione fedele quanto immaginaria della città dorica, tutte e due le cose contemporaneamente. Tutti gli scorci sono riconoscibili, ma senza che venga mai meno l’idea di fondo che consiste nel dare non certo una visione sommaria, quanto un’identità soffusa. In fondo la scommessa era propria quella di lavorare su di un tema impervio, rischioso. Cos’è una città se non i suoi monumenti, le sue icone, le sue cartoline?
I suoi abitanti sono diversi e non è necessario rappresentarli?
Silicati è riuscito nel duplice risultato di andare oltre lo schematismo delle immagini,
e di restituire qualcosa che appunto resta dentro, quell’ identità che dà odore alle città
e che le mescola con l’immaginario di un’idea fissa e ricorrente. In fondo ha adoperato
una tecnica che Walter Benjamin ha descritto a proposito di Parigi, una città è fatta
di metafore, la si può avvicinare con delicatezza solo ricordando altre cose.
Il diverso, l’altro possono rischiare di restare in conoscibili se non vi è l’aiuto delle cose note, della memoria intesa come paradigma su cui misurare la novità.
Si procede dal conosciuto all’ignoto per gradi, a meno che non arrivi una sorta
di rivelazione, che spalanca il sipario della realtà, un satori, una porta che si apre improvvisamente.
Andrea Silicati ha usato come paragone proprio la pittura, cioè la sua memoria, la sua passione, la sua vita. Non poteva fare diversamente in quanto Ancona, ancora una volta ha posto delle condizioni, anche di fuggevolezza come accade spesso con le città
di mare, in cui la luce cambia le forme, il tramonto fa dimenticare l’alba o viceversa.
La pittura atmosferica, ampia, ma anche estremamente precisa e puntuale di Silicati,
ha saputo catturare ciò che è degno di nota, i segni che l’uomo vi ha saputo costruire.
Da’altra parte l’artista di Jesi ha una sua propria personalità costruita anche sulla messa
a punto di una tecnica che gli ha consentito di uscire dalla tradizione, ma di restare sempre dentro la pittura. Il suo è uno stile visionario in cui l’uso del contagocce
per distribuire cromatismi sulla carta giapponese dà una parvenza di luce soffusa,
di matericità quasi imponderabile a scenari vivibili e vissuti. Le carte montate a strati
sulla tela danno la sensazione di una stratigrafia anche storica, come appunto la città
nel suoi plurimillenari percorsi, ma sono anche specchio di una condensazione,
di un accumulo.
Queste opere non sono uno sguardo solo, ma molti sguardi messi insieme.
La stessa vaghezza tra pittura e disegno tipica dell’artista sottolinea la sfumatura,
la nuance, quel qualcosa che c’è ma non è evidente che spesso una città come Ancona sospesa tra terra e mare suggerisce.
(fine seconda parte)
Valerio Dehò
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