di Lucilla Niccolini
Tratto da nostro lunedì
n. 4 – Scataglini
Colloquio con Antonio Luccarini
Pomeriggio del 25 giugno 2004
Ancona, studio di Palazzo Camerata
Il fascino evidente di Franco era nella sua ammaliante ritrosia, in quel suo modo di porsi
di fronte a te, come se il mondo attorno scomparisse nel momento stesso in cui tu cominciavi a esistere per lui. Soggettivo, il suo tempo, più che per chiunque altro,
finiva per fermarsi anche per te che lo intervistavi (intervistavi? Mai parola suonò così falsa e privata di significato. Andavi da lui con l’intento, o la consegna, di intervistarlo
e subito il compito ti appariva una sciocchezza, scadeva in secondo piano).
E neanche “fermarsi”, detto del tempo, è corretto: verrebbe da dire che entrava,
seguendo un suo flusso anomalo, sospeso, in un’altra dimensione. Ma non virtuale:
era una dimensione proprio reale, anzi l’unica possibile, finché restavi in quella casa
piena di quadri e di vento, in cui Rosellina dai capelli rossi ogni tanto si affacciava
dallo specchio della porta per chiedere se volevamo un altro caffè.
Col suo maglione rosso, Franco roteava le braccia dolcemente in quel vento che passava da finestra spalancata a finestra spalancata, sullo sfondo di tende gonfie d’aria,
e senza rispondere mai a una sola domanda in via diretta: ti evocava immagini e sogni, disegnava, da pittore eccellente quale era, scenografie stilizzate, panorami lontananti, teatrini rivelatori. Mi venne da pensare a don Juan di Castaneda, la prima volta che lo vidi alla presentazione del suo libro Carta laniena.
Mi ci aveva mandato Giovanni Maria Farroni, capocronista del mio giornale.
“Vai tu, Lucilla? è ora che tu lo conosca – mi disse. – Ti piacerà, vedrai”.
Mi sembrò un santone in borghese, per i capelli un po’ lunghi per la moda
di quei primi Ottanta, ma soprattutto per il viso ascetico e lo sguardo lampante
di sotto le palpebre a mezz’asta. L’impressione che fosse un santone, seppure mitigata
da quel suo positivo parlare della realtà, non me la tolse mai, neanche quando lo intervistai (si fa per dire, beninteso) a casa sua. Neanche quando mi capitò di assistere, appunto,
al prodigio del tempo interrotto, sospeso, deviato. Per questo mi sembrò una grande idea, ma anche un po’ pericolosa, quella di Antonio Luccarini, che a quel tempo insegnava ancora filosofia al Rinaldini, di invitarlo a incontrare gli studenti dell’università
al Caffè della Piazza. Fu una sera d’inizio giugno.
A quel tempo Luccarini teneva lezioni di filosofia agli apprendisti ingegneri, medici, economisti, sotto l’egida di un’associazione – l’Ascu – che era nata per tentare un allaccio almeno culturale tra la città e il suo giovanissimo ateneo. Luccarini fu il primo adulto
a dar loro retta, a farsi garante che sì, era possibile conoscere ‘sta città, dialogarci.
E chiamò Franco al bar, suscitando la “salottiera” ironia dei quotidiani locali.
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