Pomeriggio in una casa anconetana
Un grido perpetuo.
Perpetuo! esatto. Un grido perpetuo. Il mare ludico vissuto nella impossibilità…
Interdetto.
Sì, tanto interdetto quanto l’altro (il mare come forza) mi era contiguo. Mi sovviene
una notte – verso i sedici, diciassette anni – in cui, chissà per quale necessità o mistero, guardando gli alberi del viale con i ghiaccioli sotto la luce dei lumi che parevano piccoli diamanti, andai verso il Monumento (non c’era ancora la scalinata del Passetto), verso
un canneto per vedere la tempesta. Attratto e angosciato da morire, deciso a conoscere,
a sapere. Solo dopo, leggendo Rilke, trovai la risposta: «Là dove finisce l’angoscia comincia l’estasi». E fu vero. Fu, tutto sommato, una intuizione a portarmi verso quel mare, verso il senso del mondo, verso una totalità che chiamavo dio perchè non avevo altre parole per pronunciarla.
Hai mai attribuito un valore mitico al mare, escludendo qualsiasi valenza
classica o letteraria?
Sì, ma non come mito in senso plenario. Un luogo particolare. Tutte le esperienze
più importanti della mia vita (quelle interiori) sono avvenute ed avvengono sulla riva.
Quasi come se il mare portasse e continuamente cancellasse sottraendo
una storia. Lo si ritrova in alcuni tuoi testi precisi. Ha fisionomia di archètipo
e di lacerto.
E vero. E sempre un confine tra il certo (la finitezza) e qualcosa d’altro.
Sento che la riva è un luogo privilegiato della mia esperienza del mondo. D’altra parte,
il mare è una presenza originaria, in me, a livello inconscio per cui tutti gli eventi dell’esistenza (quelli pericolosi, quelli nei quali ho sfiorato situazioni mortali) lo hanno come testimone. Non do al mare una significazione sacrale; questo semmai investe il cielo,
lo stellato, ma è un altro discorso anche se non dissociato dal senso del mare.
Il cielo, per me, è sempre stato lo spazio dell’ordine e della misura. Nella mia esperienza,
i tre archètipi fondamentali sono costituiti dal mare, dalla montagna e dallo stellato.
È un ordine casuale o ha una sua motivazione precisa?
Rimasi colpito, anni fa, da un viaggio a Creta. Le montagne sorgevano direttamente
dal mare e tu ti immaginavi il mare come base, la montagna e, in alto, il cielo. Una visione che, nella sua complessità, rimanda al purgatorio. In questa triade possono essere rinvenuti gli elementi del mito di cui parli. Se in qualche modo il mio lavoro va verso
un senso purgatoriale, allora è possibile riscontrare una presenza del mito più profonda
di quanto non creda. Voglio aggiungere che, per me, lo stel-lato visto dal mare è quasi
la prossimità della gioia, della liberazione. È il varco. Il mare, in so-stan-za, è un elemento indispensabile per cogliere l’idea quasi ossessiva della cosmicità a cui mi riferisco, e che
è la mia croce e la mia delizia perchè mi accosta ad una strana sacralità e mi allontana
dal senso della storia o crea una non sempre ri-componibile contraddizione.
Forse, nella mia poesia non è così e tu puoi vederlo meglio di me. Forse è così solo in me.
Apparentemente, la tua po-e-sia ospita il mare come figura marginale.
Quando però accade, quando viene nominato e la sua presenza si propone significativamente, è sempre una percezione inquieta che lo segna e lo connota, uno sviamento, un richiamo.
Hai ragione. Mi fai pensare a quanto l’uso del sostantivo gorgo rimandi al valore stupendo e imparagonabile degli abissi in Baudelaire. Là dove tutto va a scomparire.
Il mare come tempo, il mare del tempo: tutto ciò che viene eroso, cancellato, portato via.