Giorgio Luzzi con Bruno Mangiaterra
Gli anni volano, si sale d’età, si selezionano letture e soprattutto riletture. Dante e Leopardi resistono, per quanto mi riguarda, come nessun altro. Le predilezioni possono essere paragonate ai modi di vestire stagionali, a un vestirsi a cipolla per togliersi strati e rimetterne altri, finché via via ci si rende conto che tutto sommato uno strato, due al massimo, è più che sufficiente per coprire il diritto della pelle. Per Leopardi ci fu nella mia vita il ritorno di una impennata di interesse legata a un episodio ben preciso. Parlo, se ben ricordo, della fine degli anni Ottanta: una giovane, già un po’ nota e sovraesposta, poeta italiana, chiamata a dirigere una nascente rivista di settore, vi scaricò la sua non negoziabile avversione per il poeta recanatese facendo appello a antagonisti talora plausibili (Manzoni) talora francamente inverosimili (Prati). Caduto il tentativo di golpe critico della animosa, mi rimase lo stimolo razionale di ripercorrere quell’esperienza di lettura, magari accantonando provvisoriamente qualcosa delle canzoni più propriamente borghigiane, circa le quali, a dire il vero, qualche fugace punto di contatto con le tesi della direttora sarebbe anche potuto essere non del tutto escluso; e in effetti ancora oggi ritengo che il Leopardi più grande non stia lì; semmai il limite più vistoso di quella polemica era nell’avere formulato un giudizio di valore circa l’opera del poeta marchigiano non discostandosi di un passo dalla più abusata e pigra impostazione scolastica, ignorando di fatto gli spazi eroici, le grandi retoriche statuarie, l’erudizione distillata a suono, l’enciclopedismo straniato in metafore, i furti infallibili del predatore eccelso e altro ancora. Per non dirne che una delle ragioni, infatti, credo che a nessun altro sia riuscito a livelli così indeperibili il prodigio secondo cui il grado più alto di novità e naturalezza venga conseguito grazie a un imponente lavoro di contaminazioni, compromissioni, attraversamenti.
Dire quale sia il fascino maggiore che mi viene incontro ogni volta che lo rileggo, significa dunque smembrare le tante faglie prismatiche indivisibili che compongono i testi, come se le serie di endiadi (naturalezza/erudizione, trasparenza/artificio, titanismo/regressione, mente/udito, ecc.) fossero una specie di radiografia dell’interno che prelude a quella che sarà la comparsa in piena luce del testo e come se, appunto, ogni aspetto di questa strategia apparente degli opposti non fosse indifferente a un progetto di interdipendenze globali. Si fa strada, forse lontana e divenuta opaca, ancora una vocazione alla nozione di struttura, una decisione di cestinare la vecchia e sterile idea di poesia pura come regno delle emozioni. Criterio del resto destinato, da parte di uno come me, a casi e a esemplari rarissimi: giacché rischiamo di essere preda di una nostalgia, facciamolo almeno in modo Tale che non ci si dica che frequentiamo testi di poco conto. Voglio dire che in Leopardi le inconfutabili provocazioni logico-politiche non sono isolabili dalla strategia dei tragitti intertestuali, e che entrambe le cose costruiscono un modello di antropologia dall’udito emozionale talmente alto e raffinato che non ne conosco l’uguale. Sto per lasciarmi sfuggire qualcosa che è persino troppo noto e conclamato per non suonare banale, e cioè che il massimo di originalità e di trasparenza (di semplicità) al tempo stesso deriva dal massimo di investimento di saperi settoriali; soltanto chi ha assimilato tutto, sembra dire Leopardi, può presentarsi come colui che parli al modo di chi scopra e giudichi il mondo per la prima volta. Ecco anche perché è assolutamente raccomandato di non trascurare le prose: è noto che esse si sostengono a vicenda con le poesie in una direzione di circolarità autoesegetica, di progettazione olistica. Prendiamo un tema oggi di grande e scabrosa attualità come quello della legittimità per il soggetto di disporre della propria vita e della propria morte. Prendiamo la censura morale, il linciaggio filisteo, il ricatto sociale, che premono su chiunque, almeno in Italia, intenda in maniera pulita affrontare il discorso attorno alla scelta di una morte dignitosa: parlo della livida e cocciuta opposizione al testamento biologico. Prendiamo ancora quel clima quasi di congiura, di tabù tenebroso, di morboso riserbo, che cala alla notizia di un suicidio. Ebbene, Leopardi aveva già scritto, attorno agli anni venti dell’Ottocento e quindi in pratica ormai due secoli fa, giudizi ultimativi attorno a questo punto. Ho riletto di recente i due grandi canti del suicidio: come ognuno sa, si tratta del Bruto Minore e dell’Ultimo canto di Saffo. Certo si può sospettare che a quel tempo si trattasse di una specie di moda culturale, ma c’è forse qualcosa di più attuale in materia? Pensare che una educazione logica e etica possa plasmare il soggetto al punto da consentirgli di piegare la negatività della materia, recuperando dignità, esemplarità, onore, ebbene pensare tutto ciò all’interno di architetture linguistiche e fonico-ritmiche di altissima qualità: proviamo a riflettere sulla nemmeno del tutto implicita polemica anticattolica che il ventitreenne patrizio è in grado di nutrire, sotto la quale stanno per intero l’onore della ragione e l’aspirazione a un ordine non dissennato della storia, ma soprattutto il respiro di una umanità illuminata da un barlume di riscatto, il coordinamento tra ethos e bios, la considerazione per la storia come un grande bacino di memorie e di esperienze costantemente disatteso e inquinato. Ebbene, mi si dica se questo famoso e abusato pessimismo leopardiano non ha qualcosa di euforizzante e di grandiosamente prospettico. Lo scrive lui stesso, nel primo dei due canti che ho citato: “Spiace agli Dei chi violento irrompe / nel Tartaro. Non fora / tanto valor ne’ molli eterni petti”. Dunque gli umani eroici sono per ciò stesso superiori alla divinità. Proviamo a tradurre e poi passiamoci la traduzione sotto il tavolo, fingendo di parlare d’altro. Gli umani non potendo disporre della propria nascita, almeno sia loro consentito disporre della propria morte, visto anche che il disporre della propria vita sembra non essere alla portata di tutti.
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