Estratto da nostro lunedì
numero 2 – nuova serie
Paolo Volponi e Urbino
“LA MIA URBINO”
PAOLO VOLPONI E L’ITALIA DELLA MUTAZIONE
di Martina Daraio
Scrisse Volponi: “chi è partito ha ragione” ma “chi fugge salva solo se stesso / come un passero, se un passero / si salva fuori del branco”. C’è qualcosa di molto simile in questa tentazione alla “fuga” degli anni raccontati da Volponi e quelli in corso, che vedono sempre più giovani italiani partire per l’estero. Sono anni di profonda mutazione, in cui il cambiamento scuote ogni ambito dell’esistenza: dalla politica, al lavoro, al rapporto degli uomini se stessi e con gli spazi che vivono.
Dinanzi ad un disorientamento tanto forte il comportamento più naturale è quello di provare a razionalizzare ciò che accade. Prima ancora, è però necessario trovare un punto di riferimento solido e stabile su cui poter agganciare i ragionamenti. Numerose discipline, dalla critica letteraria, alla storia, alla geografia, negli ultimi anni sono arrivate a convergere sullo stesso punto di partenza: il territorio. La coordinata spaziale sembra l’unica ad aver conservato la sua “realtà” dopo che quella temporale ha iniziato a sfaldarsi e relativizzarsi con mezzi di trasporto e comunicazione sempre più veloci. L’obiettivo, oggi, è diventato allora quello di comprendere ciò che succede nel mondo guardando innanzitutto alla sua concretezza territoriale.
I poeti e gli scrittori marchigiani hanno saputo captare questa tendenza con grande lungimiranza, riflettendo instancabilmente su quale potesse essere, per ogni autore così come per ogni uomo, il senso di vivere in un determinato territorio anziché in un altro. Per questo parlare oggi del rapporto di Volponi con la sua città di Urbino non vuole essere un’autoreferenziale discorso estetico, ma piuttosto una preziosa occasione per conoscere più da vicino il rapporto di questo autore con gli spazi, il modo in cui questi hanno attraversato la sua poetica e, soprattutto, la realtà sociale e i modelli culturali del contesto in cui quelle sue parole sono nate, cioè gli anni della mutazione dell’Italia industriale e post-industriale. A questo scopo la letteratura può vantare una grande ricchezza, e cioè quella di essere, nelle sue descrizioni e riflessioni, libera da qualunque interesse o ambizione dogmatica. I poeti e i narratori con grande acume e sensibilità scrivono “solo” per comprendere essi stessi, per guardare con occhio critico e analitico ciò che accade, e per provare a confrontarsi e capire. Per questo, anche le “scienze esatte” come la geografia o la sociologia, sempre più spesso ricorrono a fonti letterarie per avere coscienza del rapporto degli uomini con la realtà.
Quello di Volponi, in particolare, è un caso di studio molto interessante perchè egli ebbe con la sua Urbino un rapporto complesso e viscerale, tale per cui le descrizioni paesaggistiche sono un dato ricorrente di tutta la sua produzione, dalle prime poesie del 1948 fino agli ultimi romanzi degli anni Novanta. Ma non solo: Volponi ebbe anche la possibilità di conoscere altre realtà quale, ad esempio, quella iper-modernizzata di Ivrea dove sorgeva l’industria Olivetti in cui lavorava. Ad Ivrea Volponi conobbe la nuova società italiana, la corsa capitalistica e l’apocalisse culturale e umana che questa portò con sé. Ad essa affiancò lo sguardo sui suoi spazi natali, la bellezza rinascimentale della città di Urbino, i suoi palazzi, lo splendore pittorico, la grandezza storica. Il mito e la riflessione su quale potesse essere una città ideale non lo abbandonò mai, anche quando si sentì oppresso e spinto alla fuga da quei luoghi o quando gli apparvero come rovine mummificate di un passato ormai scomparso: “Il paesaggio collinare di Urbino, / che innocente appare quercia per quercia / mentre colpevole muore zolla per zolla / è politicamente uguale / […] ai giardini della utopica Ivrea / ricca casa per casa: / tutti nella nebbia che sale / dal mare aureo del capitale”.
Per comprendere questo sguardo “strabico” che Volponi volse all’Italia è interessante leggere il brevissimo testo in prosa intitolato La mia Urbino e contenuto nella raccolta di testi minori Del naturale e dell’artificiale. Qui Volponi scrive in modo autobiografico ma senza per questo rinunciare ad una grande ricercatezza stilistica e densità conoscitiva, tanto che sarebbe una forzatura parlare di questo testo soltanto come di un bozzetto paesaggistico. Si tratta invece di una riflessione sulla città di Urbino nel tempo presente con sguardo al futuro, che svela uno dei grandi meccanismi di fondo del pensiero volponiano: il partire dal dato reale e concreto per andare a proiettarsi verso un altrove, verso una dimensione di progettualità: “si tratta di riprendere e di rianimare i vecchi posti assegnati, di riaprire la città e la sua terra a una cultura nuova, di arrestare la sua museificazione, di interrompere la retorica degli autoappagamenti.” Un approccio, questo, di grande fierezza morale che il poeta non smise mai di avere, nemmeno negli ultimi anni dinanzi alla costatazione del fallimento di un’epoca. Lo sguardo al futuro, però, non è un’evasione, ma l’esito di una tensione dialettica tra passato e presente che, nella loro materialità, restano le cifre dominanti della descrizione. Spiega Emanuele Zinato nell’introduzione alla raccolta: «per contrappeso rispetto a una tale irruzione di soggettività, Volponi attinge i propri strumenti espressivi dalla concretezza plastica delle arti figurative, restando sempre attaccato all’oggetto della propria rappresentazione, alle luci, ai volumi». La concretezza fisica, corporea, dei luoghi e di ogni presenza in essi sono, dunque, la risposta dell’autore ad un mondo che tende a virtualizzarsi, a relativizzarsi con il rischio di perdere ogni punto di riferimento. Aggiunge ancora Zinato: «questo nesso dell’arte con la realtà, prefigurante nuovi rapporti delle cose con lo spazio circostante, precede ogni scissione tra arte e vita». Scrittura autobiografica e scrittura narrativa, infatti, proprio come spazialità e descrizione letteraria, non sono altro che esperienze di una stessa realtà, compresenti e indispensabili l’una all’altra. Sono gli strumenti, dunque, di cui dovremmo avvalerci anche oggi per afferrare il senso profondo nella nostra società e, in essa, del nostro essere uomini.
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