Estratto da nostro lunedì
numero 2 – nuova serie
paolo volponi e urbino
Non è infrequente nei poeti la rivisitazione del luogo natio. Osservato dal punto di vista della propria biografia, e per ciò stesso investito di una grazia aurorale; e quando essa sia discacciata o rimossa, dietro la spinta di un racconto lirico del disagio e della sofferenza. Tale è il destino degli autori della Modernità, che nel caso di chi abbia avuto i natali nelle Marche assume i tratti dell’eredità leopardiana. Ciò secondo un’ambivalenza che anche Volponi dovette avvertire e che egli declinò nella doppia scansione delle radici e della diaspora, dell’identità e del diniego. Già nel Ramarro, Urbino per quanto mai nominata è il ventre in cui avvoltolarsi, ma dal quale anche prendere le distanze. È materna e crudele a un tempo. Meglio, è il diretto emblema dell’appartenenza e della transitorietà verso i luoghi nei quali la storia non sia esclusa. Liberarsi da questo guscio vuol dire per Volponi crescere, capire se stesso e il proprio destino di scrittore e di uomo. Un percorso difficile ed angoscioso: “Questo dovrei lasciare / se io avessi l’ardire / di lasciare le mie care piaghe / guarire”, scrive in una lirica de Le porte dell’Appennino. Nondimeno la città gli si è già incisa nel corpo e negli angoli oscuri della coscienza. Da essa, dalle mura che la recingono e anche isolano dal resto del mondo, oppure sospingendo all’intorno lo sguardo dall’aerea vertigine delle colline che la sovrastano, gli occhi prensili di Volponi si affiggono visionariamente: sulle valli del Metauro e del Foglia (L’antica moneta), poi sui campi e i territori di una natura e una civiltà contadina ormai al suo tramonto (non a caso accostata elegiacamente al finire della giovinezza) e, più in là, sulle montagne e le “porte” dell’Appennino. Il movimento procede in direzione di qualcosa di conosciuto e poi subito dopo di indistinto e incerto, qualcosa che preme su un’immaginazione scissa tra la conferma del dolore, che la città in sé incardina in una “crudele festa”, e la proiezione su un altrove. Che sarebbe stata Roma in un primo tempo, ma poi anche Ivrea, Milano, l’Italia operosa delle industrie e delle lotte sindacali e operaie. Volponi si allontana, va a vivere e lavorare altrove. Ma da lontano inizia in lui sia pur lentamente un mutamento di prospettiva. Il primo tratto è riconoscere in quella perfezione rinascimentale l’identico stigma della contraddizione capitalistica: “Il paesaggio collinare di Urbino, / che innocente appare quercia per quercia / mentre colpevole muore zolla per zolla, / è politicamente uguale / al centro storico di Torino / che crolla palazzo per palazzo / e ai giardini della utopica Ivrea / ricca casa per casa: / tutti nella nebbia che sale / dal mare aureo del capitale” (Canzonetta con rime e rimorsi, nel leopardiano e risentito Foglia mortale). La svolta però decisiva e definitiva è data dalla nuova razionalità operaia e studentesca del Sessantotto che raccoglie i tanti semilavorati della cultura italiana (Vittorini, Pier Paolo Pasolini, i Quaderni Rossi, la nuova progettualità urbanistica).
Da crudele e incomprensiva che era, Urbino poco alla volta diviene il luogo dove, coniugando il passato con il presente, le attese degli anni Sessanta e Settanta si configurano in un piccolo e utopico laboratorio di socialità e democrazia. Se prima le sue mura e i suoi palazzi apparivano spietati, adesso essi dialogano con una campagna su cui ordinatamente s’intesse il futuro. Una campagna che è territorio vero e tangibile con meditate e ben organizzate culture agrarie ma anche figura in senso auerbachiano (d’altronde una poesia di Con testo a fronte reca proprio a titolo Territorio e figura). La città si fa insomma lo spazio che accoglie le possibilità di comprensione del nuovo che sta avanzando comunicandolo con i suoi segni, dalle opere d’arte alla luce metafisica che l’invade, a quel modo in cui sciamano gli uccelli nel suo cielo o avanzano metafisicamente dentro il paesaggio, come in un affresco rinascimentale, i luoghi emblematici (quello ad esempio Detto dei passeri, ricordato in un poemetto di Con testo a fronte e dove Volponi avrebbe voluto costruire un proprio atelier). Negli anni estremi, la città sospesa nella sua dimensione consente che uno sguardo nuovamente dilemmatico e interrogante si volga sul giro delle colline circostanti e poi sull’universo mondo. Recitano i versi dell’ultima raccolta, Nel silenzio campale: “Vedo ormai dalle mura di Urbino / il paesaggio intero, terrestre e marino / di tutta l’Italia nella sua naturale / grandezza fisica, distesa sotto il turchino / respiro del cielo e lungo il salino / battito dei mari” (L’orlo). L’ultima vista di Paolo Volponi si allarga sulle montagne dell’Appennino marchigiano confinante con i sassi dell’Umbria. Che gli evocano la figura di San Francesco (il poeta da lui preferito tra i nostri italiani) e che riaprono l’utopia di una costruzione fisica e metafisica a misura del creato ma anche degli uomini.
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