Loro

di Massimo Raffaeli
Tratto da nostro lunedì
n. 3 – Libri

gramsci ok

Un mio maestro, Luigi Pintor, amava ripetere che in un paese dove tutti si sentono dei dritti erano stati invece due gobbi a pronunciare le verità che nessuno, appunto,
vorrebbe mai sottoscrivere. Sono il gobbo di Recanati e il gobbo di Ghilarza,
Giacomo Leopardi e Antonio Gramsci, come dire natura e storia, in contrapposizione
e intersezione: la verità per sempre iscritta nel codice microbiologico degli individui
e quella invece deducibile dalla lotta di classe, dall’eterna dinamica dei conflitti sociali. Entrambe verità necessarie, e aspre.
Ho letto alcune poesie di Leopardi alle elementari, qualcun’altra alle medie,
ma si trattava di immagini idilliche e dimezzate, talora di lampi di cui non mi capacitavo
(…e chiaro nella valle il fiume appare, il verso più naturale della nostra letteratura:
davo ragione a Saba, senza sapere chi fosse…); però mi irritava quel soffrire prolungato, declinato a oltranza, che pareva non potesse mai avere né uno sbocco né un senso.
Al liceo mi è capitato tra le mani un saggio di Sebastiano Timpanaro, Sul materialismo (pubblicato qualche anno prima, nel ’70); mi ha aperto gli occhi a partire dalla clausola dello Zibaldone (c.4525) che in retrospettiva getta una luce livida sulla condizione umana, tanto più limitata e fallace quanto più esposta al credersi altro da ciò che è,
quanto più disposta, dunque, a credere di credere: “Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte.” Tuttora mi capita di leggere i Canti o di riaprirli a caso come si trattasse
di un breviario. Non consolano di niente, solo impongono di guardare, di fissare
quanto sul serio ci è riservato, un breve arco di cerchio (la vita) che gratuito procede
da un nulla verso un nulla ulteriore, ipotecata da malattia, sofferenza, costrizione e lutto: eppure la vita è stupenda, struggente, proprio perché ogni essere vi trascorre alla pari
di un evento originale, e irripetibile.
A quindici anni ero perfettamente ateo, ma Leopardi mi ha dato pensieri e parole
per confessarlo a me stesso. Quando ho letto (o cercato di leggere) Heidegger,
di decifrarne l’analitica esistenziale e il destino di essere-per-la-morte , ero già vaccinato, se infatti Al gener nostro il fato non donò che il morire continua a sembrarmi da allora
il verso più vero e più mio.( In Heidegger senti il filisteo della tradizione tedesca,
e persino il nazista potenziale nel disprezzo per la piccola gente, per gli uomini-massa incapaci di uscire dall’anonimato del si-fa e del si-dice; viceversa in Leopardi c’è la cura
di qualsiasi essere vivente – il poeta, Nerina, il pastore, la greggia, il popolo delle formiche – e c’è il rispetto profondo per la condizione di mortalità come tale. Per le vittime
di una Natura matrigna, ostile, indifferente.)
Tanto forte è la sovrapposizione che non riesco esattamente a ricordare quando
ho cominciato a leggere Gramsci, perché il suo nome era troppo ricorrente in famiglia
e nei discorsi di mio nonno paterno, vecchio militante socialista e poi comunista.
Ma devo averlo letto su per giù nello stesso periodo, ancora al ginnasio: non i Quaderni
né gli scritti bolscevichi dell’Ordine Nuovo, tuttavia, ma senz’altro le. Fu un’emozione fortissima, accompagnata da un senso di sgomento e insieme di euforia
che mi prendevano scorrendo le parole del prigioniero e martire del fascismo.
Non intuivo in quelle pagine sprezzo o alterigia ma una divisa etica e riconoscevo
la profonda cognizione del fatto che gli uomini non sono atomi bensì entità molecolari,
che la storia è il racconto (sia pure parziale, reversibile, revocabile) del loro associarsi
e configgere nel nome di un interesse materiale, ovvero di un ideale.
(Capivo infine che la storia è la terza dimensione degli esseri umani, la levatrice di una lotta che finalmente può scamparli dallo stato di servitù e di etimologica idiozia.
E così Gramsci in una delle ultime lettere a suo figlio Delio: “(…) Tu scrivimi sempre
e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva
a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda
gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono
tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti
più di ogni altra cosa.(…)”.
Forse ho sbagliato tutto. Tutto sembra dare torto alle letture appassionate del ragazzo degli anni settanta. Leopardi, oggi, è come disinfettato, neutralizzato, anzi annesso
(lui materialista e fratello della morte) ai battistrada della cosiddetta teologia negativa;
al liceo viene letto volentieri nell’antologia di un allievo di don Giussani
(…siccome il poeta nega l’idea stessa di dio, ma la nega con forza, in realtà la afferma,
per denegazione, e con enfasi…). Gramsci invece è al macero e ai remainders,
o al massimo si studia dentro i fortilizi delle più esclusive università americane. Alla faccia.
Le ceneri di Leopardi in realtà non si sa dove siano, mentre quelle di Gramsci
sono a Roma, al Cimitero degli Inglesi, uno scacco di silenzio e verde tra la Piramide Cestia e Testaccio: è proprio lì che Pier Paolo Pasolini scrisse il poemetto eponimo, decisivo in ogni senso per il ginnasiale presto divenuto un ragazzo degli anni settanta.

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