Piccolo blues – Massimo Raffaeli

Di Massimo Raffaeli
tratto da nostro lunedì
n. 2 forme – prima serie

26-27Non sapevo, da bambino, cosa volesse dire una forma.
Non ne avevo ovviamente coscienza. Vedevo e toccavo ogni giorno migliaia di forme ma, evidentemente, esse erano dei semplici rilievi del guardare e dell’ascoltare: erano le cose, tutte le cose, astratte e concrete, una diversa dall’altra, e nient’altro.
Vale a dire che esistevano le forme, o meglio, ogni volta, le cose con una loro forma,
ma non esisteva affatto la Forma. (Tanto più che il buonsenso, intorno a me, tutto il tempo avviliva ogni possibile astrazione, persino la domanda se esistesse o meno, questa Forma). Tutti sembravano badare al contenuto delle cose; anzi dicevano ossessivi,
di qualunque cosa parlassero, “guarda al contenuto, non alla forma”. Perciò sospettavo oscuramente, senza affatto conoscerla, che la forma fosse una copertura ipocrita,una foglia di fico, un inganno, simile alla stagnola lucida di certe gomme americane troppo dolci che appena le scartavi si squagliavano, sbrodolando, e dovevi poi sputarle
invece di masticarle. Tanto più che della forma era maniaca, e ne parlava come della cosa più importante nella vita, una donna che disprezzavo, che ho odiato con tutto me stesso,
la mia maestra di prima e seconda elementare. Pronunciata da lei,”forma” era sinonimo
di contenzione, di stare fermi e muti a braccia conserte. Il calamaio che non trabocchi,
a sinistra i pennini e la carta assorbente, a destra invece il quaderno e la penna,
la cartella ben chiusa sotto il banco. Forma erano anche le poesie che ci faceva imparare a memoria ed erano una  fissa, per lei: l’inno di Mameli, Sole che sorgi libero e giocondo,
i versi di Ada Negri e Renzo Pezzani. Io ripetevo a pappagallo, ma sentivo che quelle cose lì mi facevano schifo (continuano a farmelo).

L’Italia chiamò: che senso poteva avere? e perché la troncatura, nel finale?
Sembrava che l’Italia fosse lei in persona, quando faceva l’appello, chiusa nel grembiule nero, alta e secca come lo spaventacchio: pensavo infatti che agli appelli di lei era meglio non rispondere, nella vita. Tra l’altro avevo scoperto che la maestra proprio sulle forme barava: una volta disse che il giorno dopo non saremmo andati a scuola perché era festa, si ricordava il compleanno di Guglielmo Marconi, grande inventore, e ci diede per compito da scrivere delle belle frasi sul telegrafo senza fili; mio padre diede fuori di matto,
e così venni a sapere che invece si trattava del 25 aprile, ricorrenza della Liberazione,
la quale ci aveva salvato – questo fu lui a dirlo – dalle carampane fasciste uguali a lei,
o almeno ci aveva provato.) Eppure fu a scuola, qualche anno dopo, che la Forma
mi si svelò per quel che è, corposa, sostanziosa, necessaria, come un oggetto che si trova dopo averla molto a lungo (senza requie e coscienza) cercato: la cosa che volevi dire tu ma non potevi, o non sapevi. Dunque la cosa-in-sé. Va aggiunto, per inciso, che andavo alle medie verso la fine degli anni Sessanta, che l’universo dentro e intorno a me cambiava in fretta; che cominciavo a intuire che il mondo era diviso almeno in due (chi sta sopra
e chi sotto; chi ha e chi non ha; chi va in giro con la Fiat Seicento e chi invece in bicicletta come prima della guerra) quando una mattina la supplente di italiano, tanto per riempire un’ora vuota, fece aprire l’antologia (non ricordo il titolo né niente, solo che era massiccia, con la copertina gialla, pubblicata da Paravia) e prese a leggere una poesia che mi colpì come nemmeno una sassata. Brevissima, bruciante, insieme con essa l’immagine
della fiamma ossidrica si sovrappose (estinguendole di colpo) alle cornicette e ai fiori olezzanti con cui la mia vecchia maestra amava adornare il suo letame. Andai ad Atlanta, mai stato prima: i bianchi mangiano la mela, i negri il torso. Lì per lì quasi nulla,
ma poi quelle poche parole hanno cominciato a rimbombarmi dentro; ci ho impiegato
del tempo a capire, ma infine ho compreso, o tuttavia lo credo. (La campagna e la città,
il mondo della ricchezza e del privilegio mischiato a quello della privazione.
Insomma la vita stessa. L’eterno due-in-uno. Due cose contrapposte, tensive, però strette da una cosa sola. O meglio due menzogne retoriche, questo lo so soltanto adesso,
cioè l’anafora e l’antitesi, per dire paradossalmente una sola verità. Il mese dopo la foto
di Carlos e Smith che, alla maniera delle “pantere nere”, alzano il pugno chiuso sul podio di Mexico City fece il giro del mondo: seppi anch’io cosa voleva dire). Ci ho messo
altri vent’anni a ritrovarla in un libro. è successo altrettanto di colpo, per caso,
sopra una bancarella di volumi usati: così ho scoperto che l’epifania della Forma, per me, non era neanche stata una poesia, ma appena i versi (saranno in tutto una decina)
di un piccolo blues (mai sentito cantare) a firma Langston Hughes.

 

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