La forma della sera

luoghi

nostro lunedì n.10 - luoghi

Acruto Vitali
con Osvaldo Licini

 

Quando il vespro adunò l’ombre ed il cielo

fu come il grande specchio della sera,

io vidi profilarsi la chimera

nel colore del tuo pallido velo.

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Approdo a Recanati

nostro lunedì n.9 - marche

Adrián N. Bravi
con Marzia Lucchetti

Era un sabato mattina, mi ricordo bene, e c’era pure il sole; da un lato vedevo i monti, foderati appena da un velo di foschia, dall’altro il mare. Cominciava l’estate e io sudavo da tutte le parti.

Mi ero lasciato l’inverno argentino alle spalle con una maglia e una giacca che ora portavo addosso, perché uno non ci crede mai che dall’altro lato del mondo possa accoglierti, come un miracolo, una temperatura sopra i trenta. Ma mi andava bene tutto, anche se a Recanati quel sabato c’era il mercato e i bancarellari sbraitavano e io non capivo una parola. Continua a leggere

Tre poesie con il mare e Pietà per il Pianeta

 

nostro lunedì n.8 - elementi

 

Tre poesie con il mare

Emily Dickinson
nella versione di Damiano Abeni

 

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Il mio Fiume scorre a te –

Mare Celeste! Accoglierai me?

Il mio Fiume attende responso –

Oh Mare – guarda benigno –

Ti recherò Torrenti

da recessi lucenti –

Su – Mare – Prendi Me!

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In forma di parole

 

nostro lunedì n.7 - pensare

 

Colloquio con Gianni Scalia, Bologna, maggio 2006

“La filosofia ha la sua origine dall’amore e solo da questo. Il suo nome lo attesta “Philosophia”: amore della saggezza.

Come si deve intendere? L’accezione più ricorrente – bisogna ricercare la saggezza che non si possiede ancora – non conclude che a una banalità, un turismo. Ma essa di fatto ne maschera un’altra più radicale: la filosofia si definisce come “amore della saggezza” perché deve di fatto cominciare per amore, prima di pretendere di sapere.

Per giungere a comprendere, bisogna prima desiderare, detto altrimenti, stupirsi di non comprendere (e questo stupore anche offre un inizio alla saggezza), o ancora, soffrire di non comprendere, oppure, temere di non comprendere (e questo timore, ancora, apre alla saggezza). Continua a leggere

Ritorno a Casarsa

 

nostro lunedì n.6 - viaggi

Gianni D’elia

– Qui, Pasolini è cominciato da poco…

Diceva così la tassista, guidando la sua Mercedes fino al cimitero.

Fuggivo da una rissa verbale, da un giudizio cattivo sul mio fare, un invito di qualcuno che, amico, ma brutale, aveva risposto alla domanda sul mio libro:

– Il peggiore che hai scritto. Insistendo, poi, e credendo di scusarsi: – Non è un libro estetico.

Estetico? Come si dice: – Non rientra nel mio gusto del bello.

Filava la tassista, intanto, lungo la striscia del paese di Casarsa, con la casa del poeta, a sinistra, là, senza nessuna targa, d’un rosa rossiccio o cosa, due vetrine al pianoterra, vuota, dentro.

– Ci fanno un po’ di mostre…

Invece di andare a scuola a parlare della mia poesia ai vivi, andavo a ritrovare il poeta più poeta, il morto più vivo che conosca, dopo Giacomo Leopardi.

Il sole, tra le nuvole, più alto, come in Friuli mi sono sempre parse, accendeva una scena da dopo temporale, tra vigne e casette geometrili, ville e villette col giardino, cortili nuovo di hotel, o cancelli, con dietro vecchie corti, acacie, pioppi, qualche misera catapecchia contadina disabitata. Continua a leggere

Sbarco ad Ancona

 

città

nostro lunedì n.5 - città

Sandro Penna

Dalla nube di polvere di carbone
mi saluta un sorriso tutto bianco.
Ma l’angelo di legno della barca
guarda gli orinatoi tristi e odorosi
improvvisati agli angoli – rivali
o amici cari ai cocomeri rossi.
Amici miei gli orinatoi… Ma io
non tendo forse al monte dove trovo
– lontano il mare e l’odore perverso –
l’adolescente odoroso di fichi?

 

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Sbarco ad Ancona

Carcere demolito

Scataglini

nostro lunedì n.4 - Scataglini


1
Come colpi d’aceta
sprofóndane tre mure
framezo ortighe scure
de sopra la breceta;

‘na fascia de cemento
d’indove el filspinato
se driza intorcinato
ie fa da sbaramento

e ‘n cancelo de legno
con lucheto e catena
(el verdeto e la pena
che se delma a congegno).

Co’ la demolizió
esta chioga quadrata
sortì come schiodata
da ‘na maledizió

de sbare e schiavardà,
d’aria fissa e de ronde,
de ore fate imonde
da la catività.

O raza de Caì,
adigatora al chiuso,
vedevi alzando el muso
le sòle ai secondì.

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Lo scintillio

 

 

libri

nostro lunedì n.3 - libri

Umberto Fiori

Se penso ai libri che hanno influenzato la mia vita, la mia storia, il primo che mi viene in mente è un volumetto di poche pagine, un’edizione per ragazzi della Divina Commedia con le illustrazioni di Doré, che un amico di famiglia mi regalò per il mio decimo compleanno (1959). Quel regalo fu il primo contatto diretto (non scolastico, voglio dire) con la poesia, e mi inorgoglì come un’investitura.

Imparavo a memoria terzine e terzine, contemplavo per ore Caronte scarmigliato sulla sua piroga, Minosse con la corona in testa, la coda avvinghiata ai muscolacci da lottatore. Di lì a poco (avevo dodici anni) qualcun altro mi regalò gli “Ossi di seppia” e “Le occasioni” di Montale, nell’edizione dello “Specchio” Mondadori, che allora (primi anni ’60) era – anche graficamente – splendida. Tutto mi piaceva in quei libri: i vasti bianchi della pagina, lo spazio tra il titolo e il testo, i caratteri. Montale me l’aveva già fatto conoscere la mia insegnante di lettere delle scuole medie (una donna eccezionale che oltre a Omero e Catullo, Carducci e Pascoli, ci faceva leggere i poeti contemporanei, italiani e stranieri), ma per la prima volta lo avevo lì, per intero, tutto mio. Dei versi, ovviamente, capivo quel poco che può capire un ragazzino di quell’età: non c’erano note a soccorrermi, e nulla sapevo di Annetta-Arletta, di Boutroux e compagnia. A sedurmi – in quel corpo a corpo col testo – era la corrispondenza tra la materia austera e sensuale delle parole degli “Ossi” (il mio Montale preferito, ancora oggi) e il paesaggio del Levante ligure, nel quale ero cresciuto. In quelle pagine sentivo la presenza delle cose più familiari (agavi, scogli, greti, muretti, isole, mare) vibrare e farsi più vera in una lingua che era la mia lingua, ma come lievitata, radiante. Il suono e il ritmo di quella rappresentazione, di quella ri-presentazione del mondo, mi hanno formato da capo a piedi. Se ho un po’ di orecchio, è di lì che viene. Continua a leggere

Un’altra musica, un’altra Italia

 

forme

nostro lunedì n.2 - forme

Colloquio con Gastone Pietrucci

Quando e come nasce “La Macina”?

“La Macina” nasce nell’agosto ’68 perché ho avuto la fortuna, a Spoleto, mentre preparavo il mio esame di stato, di assistere allo spettacolo “Bella ciao” di Roberto Leydi e Filippo Crivelli, al Teatro Caio Melisso, durante il “Festival dei Due Mondi”. Fu per me una folgorazione giovanile. Conoscevo della musica e della canzone tutto quello che passava la radio di quei tempi: improvvisamente ho visto e sentito che c’erano un’altra musica e un’altra Italia che cantava, per parafrasare le note di regia dello stesso Crivelli, e da lì ho avuto la voglia imitativa di riproporre quelle cose perché, nella mia ingenua ignoranza di allora, ritenevo che la musica popolare fosse solo quella che avevo conosciuto a Spoleto, particolarmente lombarda e piemontese, attraverso Giovanna Marini, Caterina Bueno, Sandra Mantovani, solo per ricordarne alcuni. Per diversi anni ho frequentato il repertorio di quel disco. Poi, naturalmente, come comprendi bene, ho avuto bisogno di staccarmi da quel lavoro capendo che la musica popolare era presente in tutte le regioni grazie anche alla tesi universitaria che ho preparato sulla letteratura tradizionale e orale marchigiana e spoletina, partendo appunto dalla ricerca di tradizione e di oralità della mia terra e da lì non mi sono fermato più.

E la ricerca? Continua a leggere

Cinema d’essai

 

scene

nostro lunedì n.1 - scene

Massimo Raffaeli

Il cinema non era un cinema ma uno dei teatri ottocenteschi tipici delle Marche: platea da cento posti (sedie scomode, cigolanti) e file di palchi color panna, con la bordatura di velluto crèmisi, un gran lampadario rococò. La guerra l’aveva distrutto e la facciata era stata ricostruita in marmo fascista, come una stazione ferroviaria o il palazzo delle poste, alla Piacentini. Chiaravalle l’aveva utilizzato, nel tempo, per le compagnie di giro, i veglioni, i comizi, le premiazioni della Befana e i raduni delle associazioni benemerite. Era un cinema da seconde visioni e d’estate diventava glaciale, l’aria sapeva di rinchiuso e del tanfo delle sigarette. Ci andavano gli scapoli e i ragazzi del paese, dopo il biliardo e le carte. La domenica, molta gente di campagna e delle frazioni. Molti entravano a spettacolo iniziato, il cinema era un divertimento, uno svago, e nient’altro.

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