Dal nostro lunedi – semestrale di scritture immagini e voci ideato e coordinato da Francesco Scarabicchi e Francesca Di Giorgio.
Prima serie Città numero cinque – marzo 2005
Quella sorta di elevazione rocciosa, ora collina, ora montagna e ora depressione che costeggia il Mare Adriatico da Numana ad Ancona, tocca la sua massima altezza ed imponenza proprio intorno e sopra la baia di Portonovo. Poi gradualmente corre verso il nord e si frattura, si sgretola e riprende il percorso serpentiforme allontanandosi o correndo verso il mare. Ora scoglio, ora cròda dolomitica, abbassa e rialza la testa in un andirivieni di sinuosità e articolazioni da sembrare il percorso di un gioco o di una pista circense. L’estrema propaggine a nord si conclude dopo l’ennesima subsidenza (ove é quasi depositato un Anfiteatro di Roma) e come un residuale sussulto, alza la testa fiera divenendo colle e poi scivola definitivamente nel mare, concludendo il suo affannoso ansimare.Questa sorta di montirozzo, quasi un terrazzamento naturale ove si ammira il circostante mare, le belle insenature portuali e più lontane le collinette dell’entroterra, è stato da sempre corteggiato dall’uomo perché dall’alto poteva meglio ostentare, controllare e vigilare; dominare e soprattutto essere individuato. Ma é curioso che questo Colle Guasco non diverrà mai un baluardo di guerra catafratto, ma un baluardo di fede e di spiritualità. Intanto ospiterà i primi insediamenti neolitici ove sorsero capanne tra canneti e fitta vegetazione. Ora si costruisce e poi si abbatte, per poi ricostruire e demolire e il Colle appare come una sorta di sandwich ove si aggiunge fetta sopra fetta: arrivano i siculi e costruiscono, arrivano gli umbri e abbattono, arrivano i siracusani e riprende il lavorìo di un Tempio. Poi é la volta di Roma Repubblicana e quindi Imperiale ed ecco sorgere il Tempio di Venere Eupléa che risplende nel candore dei suoi marmi e beneaugurante conforta il transito dei naviganti. Scendendo verso la spianata del piccolo golfo ecco prolificare una città di mare austera e splendida, ricca e laboriosa. Corredata da servizi portuali e mercantili, abbellita da presenze monumentali: Traiano la volle funzionale e strumentale per i suoi viaggi puntati nella terra di Dacia. I cristiani distruggono il Tempio catulliano ed erigono chiese dedicate ai santi martiri sino al capolavoro architettonico della Cattedrale dedicata ad un santo d’oriente. E sotto, la città si trasforma e si uniforma a nuove esigenze e nuovi stili. Dilata la città e si espande rivestendo l’intero arco della insenatura per poi risalire una nuova collina lambìta da vigne, frutteti e orti. Una splendida città, quindi dalla perfetta tramatura urbanistica, come si usava fare nei buoni tempi antichi. Ancona: ex piccola e grande “Mirabilia Urbis”. Questo é quindi lo scenario e il fondale scenografico di un presunto accadimento onirico che desidero raccontare. Osservo, in una notte senza luna, il laborioso brulichìo delle luci lontane come fosse un rappreso svolo di lucciole vacanti in sosta. Il profilo della collina frontale sembra ritagliato da un cartone nero che si adagia sopra un cielo nero. Dietro, come incassata in una fossa lambìta dal mare sembra ardere (ma forse é soltanto un’impressione) una città e un purpureo bagliore di lucciole impazzite sale lentamente verso il cielo diffondendo come il morbo di una luminosità anomala e malata. Il bagliore, ora sanguigno, sale come un bubbòne infetto e il fumòne assume la parvenza di un corpo informe che rotola, ruota, scavezza, s’inalbera e s’inchina. E salgono spirali come colpi di frusta che, spruzzi e sprazzi di fuoco, farebbero pensare ad un inquieto spettacolo pirotecnico. I colori, ora non più classificabili, incendiano se stessi e la combustione diventa una scodinzolante foresta in fiamme. Lingue sottili e nervose leccano il cielo e coriandoli di fuoco disegnano veloci e indefinibili figure. Una fiamma (o un assembramento di fiamme) particolarmente grassa, si dilata e si contorce, scalcia, scornazza, scodinzola e nel travaglio muggisce, soffia e rantola, s’impenna e si arrovella e par stringere la mascella e gonfiarsi. Quindi un conàto di getti – come surge – si divide in rivoli capillari, tentacoli come braccia annaspanti in cerca di una preda. Ora l’immagine fa pensare ad un enorme pino disseccato e incandescente che ha fremiti e sussulti, si contorce e scorruccia, ma parrebbe aver toccato, come un orgasmo conclusivo, il vertice estremo di uno spettacolo insolito dal quale, assai terrorizzata (come formicaio disorientato) fugge al galoppo una enorme chiazza nera che scivola sulla terra provocando come un fruscìo che squittisce: enormi topi surmolotti si precipitano lontano cercando scampo e rifugio sulle colline. Poi, finalmente la procella prende fiato, palpita, riposa, si placa, stramazza e s’ingorga a pioggerella sopra la città che é come una padella. Un residuo soffione si alza mulinando e tra vapori e ceneri borbottando si estingue a poco a poco. Se non fosse per qualche secco scricchiolìo, nessuno si sarebbe accorto del lento inarrestabile scivolar della chiesa dal monte, che slitta, frana, sdrucciola e si sbuccia, s’accartoccia, si smonta e s’inginocchia. Come una prua al varo, s’infila in acqua nell’atto di salpare e lentamente, come in agonìa, s’innabissa in fondo al mare. C’é qualcosa che induce a non rassegnarsi: la scena popolata da muggiti e gorgoglìì, più che di rumori, non ha avuto testimoni. Tutto intorno é silenzio. La città é deserta. Gli ultimi bagliori di fioca luce scompaiono dietro la collina di cartone nero e gradualmente una notte cupa si ricompone nella sua normalità di una normale notte senza luna. Il mattino seguente, forse per pudore, nessuno parla di quanto è accaduto (o così é parso) nel corso della notte. E io temo persìno di chiedere in giro se sia mai realmente accaduto qualcosa di insolito. Quella notte, nella “Terribilia Urbis”.
Valerio Trubbiani
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